Le vacanze invernali
ce le eravamo proprio conquistate. Con la borsa di studio annuale
avevamo diritto di comprare in rubli il biglietto del treno da Mosca a Venezia.
Poiché il treno attraversava diversi paesi (uno dei quali oggi scomparso), c’era
toccato vagare di ambasciata in ambasciata per ottenere i visti d’ingresso, un
ingresso su un treno in corsa con i finestrini bloccati, offuscati dal ghiaccio,
che mostravano come unico paesaggio dei conturbanti ghirigori gelati.
Il vagone era affollato. Io mi ero portata dietro un’enorme
valigia gonfia di regali, un pollo cotto in una speciale marinatura e un libro
destinato a rimanere il mio romanzo del cuore.
Il pollo me l’aveva preparato un amico africano, consapevole
del mio totale disinteresse per la cucina, con l’assicurazione che sarebbe
durato più giorni senza nuocere al mio stomaco.
Il libro, invece, mi ha accompagnata tutta la vita, l’ho letto più volte in italiano e in russo, e non è ancora
finita.
Il viaggio fu lungo, tre giorni e tre notti, e foriero di conoscenze. I nostri compagni di cuccetta erano
un contadino siberiano e un ragazzino ucraino che indossava un anacronistico
completo con cravatta. All’epoca russi e ucraini erano tenuti a non farsi la
guerra. Essendo noi le prime straniere dell’Europa occidentale con cui avevano
occasione di conversare, ci intervistavano con entusiasmo. Il siberiano era una
fonte inesauribile di proverbi, che non sempre capivamo. Mi piaceva molto la
sua barba e la cadenza con cui raccontava le sue storie, intervallandole con l’offerta
di una grossa fetta di kolbasa.
Giunto il momento di preparare il letto, la prima notte,
i due maschi uscirono galantemente per
lasciarci spogliare, ma fu il mio unico tentativo di scandire il tempo. Gli
altri giorni li passai dormendo vestita, senza più lavarmi, così, per maggior
comodità.
Ancora oggi adoro quel viaggio: il tè che serviva il
controllore nei bicchieri di vetro con il manico di peltro e le zollette di
zucchero; il tempo che trascorreva fluido, senza propositi, io con le gambe per aria e il mio libro da
leggere; Budapest che ci accolse elegante e che sembrava già occidente, e la stazione di
Venezia, con la laguna che, ad arrivarci
da tanto lontano, era pure più bella. Se proprio mi sforzo riesco ancora a
evocare l’odoraccio che usciva dallo sfiatatoio vicino alla mia cuccetta,
olezzo di pelle di salame e piedi sporchi. Non dico di rimpiangerlo, ma non mi
disturberebbe avere ventiquattro anni e sentirlo di nuovo.
Tutto ciò lo scrivo un po’ per il piacere personale di
rivangare i miei ricordi, ma soprattutto perché il libro che mi accompagnò nel
viaggio ce l’ho ancora e non poteva scomparire in nessun modo, dato che parla
di manoscritti che non bruciano. È ben vero che l’importante è ciò che porta
scritto nelle sue pagine, ma poterlo prendere in mano e sfogliarlo mi dà un’emozione
che un e-book (di cui per altro sono una convinta fruitrice) non mi potrà mai regalare. Il fatto
è che un libro di carta, anche se l’ha scritto un altro, ha il vantaggio che
fisicamente è tuo. Ma forse è cosa questa che piace solamente ai sognatori, soprattutto
se sono di un’altra generazione. Del resto, quando ho bisogno di estraniarmi
dal mondo, a me basta guardare un gatto e vedo Begemot.