venerdì 29 novembre 2013

Dal baule della nonna: racconto a episodi stile torta da credenza. VIII



 Ero partita con una borsa rigonfia ricamata a punto e croce. Aveva lo sfondo nero e un disegno a fiori scarlatti. Era stata della madre della mamma, e lei l’apprezzava molto. L’ho conservata a lungo e ora è eredità di una nipote. Gli angoli tondeggianti si sono spellati, ma in alcuni punti il lavoro di cucito è ancora intatto. Si riconosce la mano di una volta. Con  i manici di cuoio portavo qualche ricambio di biancheria, due o tre maglioni fatti a mano, calzature più eleganti delle scarpe con le stringhe che indossavo, e un paio di meravigliose calze di seta fumé. Nel cuore invece racchiudevo una sacca di desolazione. Avevo finto di comprendere le ragioni materne, ma l’avvilimento mi abbatteva. Al momento mi pareva che le cose da rimpiangere fossero ben più di quelle per cui gioire.

Mi sarebbe mancato il sentimento, struggente e intrigante, che provavo per mio fratello Primo, il quale, da bravo contadino con l’occhio  lungo, di qualcosa doveva essersi accorto. Non volevo perdere l’affetto delle mie sorelle, lo spazio dei campi intorno a casa, gli odori dell’aperta campagna, le rare carezze ruvide e impacciate di mio padre. Potevo invece rinunciare con una certa sventata allegria al lavoro dalla signora, grassa matrona paesana paludata in vesti scure, dal ventre che s’indovinava flaccido, non cattiva ma munifica di ordini perentori, continue  pretese.

lunedì 25 novembre 2013

Un arcobaleno tutto rosso (giornata contro la violenza sulle donne)

Anche io voglio contribuire con "mi granito de arena": un sandalo estivo rosso e un po' frusto che è stato molto usato dal mio piede di donna.
Un tempo era un bel sandalo, comprato a Firenze. Il ricordo della sua passata avvenenza servirà a far perdonare la bruttezza della foto.
Lo dedico a tutte le donne che hanno subito o subiscono silenziosamente violenza. Un abbraccio.



venerdì 22 novembre 2013

Tre sdrucciole multiple e perfide per salvarsi l'anima

Che difficile tradurre la letteratura per ragazzi (cioè per tutti noi ragazzi più o meno cresciuti). Nel Bosco dei sogni di Antonio R. Almodóvar, il Cavaliere Indifferente gioca alle Tre sdrucciole multiple e ritmicamente rimate con un giovane principe seduttore. E il traduttore, dizionario alla mano, si mette di buona lena a cercare le parole sdrucciole ma anche rimate (olo, ido, ico...) per non dover cedere la propria anima al diavolo.

«Perfetto. Io dico una sdrucciola trisillabica e tu rispondi con altre due, con le stesse vocali o perlomeno che ne riprendano due nella prima e nella terza sillaba. Ci sei? Per esempio: se io avessi detto solamente “pargolo”, tu avresti potuto rispondere “pallido” o “scapolo”. Hai capito?»
            «Credo di sì. Ma cosa vinco se vinco?» domandò il principe in un tentativo di pleonasmo, a mo’ di riscaldamento.
            «Oh, non è un granché» meditò il retore: «“Cosa vinco se vinco?”… ma non sei privo di qualità. Mettiamo… che anche se vinci non convinto di vincere, vincerai ciò cha avresti perduto perdutamente: la tua anima!»
            «Ma se un momento fa hai detto che di quella pallida lucciola squallida te ne infischiavi…»
            «Be’, ma è pur sempre qualcosa. Comunque, facciamo così: diciamo allora che se perdi tre volte, me la tengo comunque. Sei d’accordo? Sì o sì?» L’altro non poté far altro che accettare controvoglia una alternativa tanto assurda. «Anzi, aggiungerò qualcos’altro. Se tu mi batti una sola volta, il gioco finisce.» Juan sembrò più sollevato. «Benissimo. Allora, ecco la seconda:  Magico
            Juan ci pensò su e disse: CavoloValido
            «Bene, bene…»
            «Ora tocca a me…» si entusiasmò il mio principe. «Metodo
            «Oh, troppo facile: Reprobo, Medico! Sta a me: Arido
«Ehm…» esitò pericolosamente lo sfidato: «Valido, Pallido
«Non vale. “Pallido” è già stato detto. Perdi. Ancora io: Fulgido
«Fulgido? Rustico, Putrido! E io dico: Algido
«Basico, Rapido!» Mio padre rispondeva sempre velocemente. «Aspetta: Ludico
«Uhm…Infulo, Pubico
«Da dove hai tirato fuori quella parolina? “Infulo” non esiste. E perdi la seconda volta. Attenzione adesso: Regolo
«Reprobo, Perfido! Sta a  me: Succubo
«Non esiste.»
«Sì, invece!» protestò Juan.
«No!»
«Controlla nel Libro di Ermes!»
«Non gridare!» sbraitò allora Satanasso. Un silenzio minaccioso calò tra loro. Il mio principe non osava nemmeno alzare la testa, tuttavia non si scusò. Alla fine, l’altro riprese: «Credi che io sia uno stupido, rigido, stolido? Tu vuoi solo vedere quel libro, per cercare di rubarmelo!»
«Io dico solo che quella parola esiste» ribatté ancora Juan, benché in tono più tranquillo. «In realtà, tu non vuoi che esista, proprio per via del suo significato» azzardò di nuovo lo sfidato.
«Cosa? Cosa diavolo significa “succubo”?»
«Proprio questo: diavolo. Cercalo.»


domenica 17 novembre 2013

Amarcorgol'


Italia, anni Ottanta. Mi dirigo in biblioteca. Sto cercando un saggio di Nabokov su Gogol'. Mi serve per l'esame del secondo anno di russo, ma è una lettura che mi sentirei di consigliare anche se fossimo  già nel duemilatredici. Forte della mia conoscenza della lingua, sfoggio davanti al bibliotecario un bel Gógol'. È una parola piana.  Il bibliotecario non capisce. Nel silenzio della biblioteca echeggia chiaro e netto il suo "COOOMEEEE?". Tutti alzano la testa, interessati (nel silenzio generale un suono solo, secco, altisonante non disturba, incuriosisce). Provo un leggero imbarazzo: Gógol', ripeto  intimidita. Il fatto è che nei primi anni Ottanta sono molto giovane e credo ancora ai templi della cultura.  "AH" dice lui più sonoramente, "GOGÓL", scoccando una parola acuta, ritmica, affilata (forse influenzato da Mogol, il paroliere, o dal Gran Mogol delle Giovani Marmotte, o più semplicemente non sa che è sbagliato, e non ci sarebbe nulla di male, se non prendesse per i fondelli il prossimo....), e l’accompagna con un gran ghigno divertito.
Dentro di me mi ci arrabbio. Fuori, apro il saggio di Nabokov. E c'è scritto, più o meno, che per affrontare un autore è buona norma saperne pronunciare il nome. Leggo il paragrafo tre o quattro volte, lo assaporo, me lo schiaccio con la lingua contro il palato, sento gli angoli della bocca puntare all’insù, e mi innamoro ancora più perdutamente della letteratura russa. Mi infilo il cappotto di Akákij Akákevič, prendo in prestito il libro, esco compita dalla sala di lettura, mi tuffo nel grottesco della vita e mi sembra che il mondo sia mio.
Ogni volta che chino la testa su un libro, spero di ritrovare la stessa sensazione.


* Il saggio di Nabokov si intitola Nikolaj Gogol’, in Italia l’ha pubblicato Mondadori negli anni Settanta, e l’ha tradotto Annamaria Pelucchi


domenica 10 novembre 2013

Dal baule della nonna: racconto a episodi stile torta da credenza. VII


VII
Primo e Giulia si rotolavano spesso nella stalla dei cavalli, che la signora da cui a giorni alterni andavo a servizio si ostinava a chiamare scuderia, o nello scantinato della casa padronale, una decorosa villa a tre piani che si affacciava alla corte con la porta a vetri dalle persiane di legno. Le finestre, soprattutto alla vigilia di Natale e nel veglione dell’ultimo dell’anno, si accendevano di riflessi che ci facevano sperare, noi della cascina grande,  in una ricchezza di là da venire. Le ragazze spiavano trasognate gli abiti da provincia sobria, lungi dal boom economico che l’avrebbe orientata verso scelte più barocche. I ragazzi invidiavano le pose arroganti degli uomini in completo scuro. Aspiravamo, insomma, al meglio che c’era a disposizione. Digiuni di viaggi, di orizzonti allargati, inesperti di riviste patinate, curiosi alla nostra maniera di qualche moda occhieggiata nelle rare puntate in città. Attratti dalle auto. Come quella del pasticcere.

Quell’uomo grosso, con il cappello a tesa larga sulla chioma rossiccia, osservava con uno sguardo celeste  la varietà dell’incarnato dei figli della sua miglior fornitrice. Nei miei occhi neri e nei riccioli inanellati, rimpianse la giovinezza di Milù. All’epoca era raro che un uomo temesse la vecchiaia, la libertà sua era infinita, mentre la mamma sapeva, anche senza bisogno del tanto decantato sesto senso, che il tempo per lei, femmina procreatrice, era due volte più breve. Mi amava molto, ma era di indole pratica. Per la sua primogenita desiderava una buona occasione. La città in cui mi avrebbe mandata non era certo la capitale di un impero e il pasticcere fulvo non somigliava al principe Andrej, ma era delicato e gentile, nonostante la stazza da mangiatore di pastella fritta nello strutto, e disposto a farmi studiare. A darmi un mestiere e, visto che c’era, a farmi un corredo.