VII
Primo e Giulia si rotolavano spesso nella stalla dei cavalli, che la signora da cui a giorni alterni andavo a servizio si ostinava a chiamare scuderia, o nello scantinato della casa padronale, una decorosa villa a tre piani che si affacciava alla corte con la porta a vetri dalle persiane di legno. Le finestre, soprattutto alla vigilia di Natale e nel veglione dell’ultimo dell’anno, si accendevano di riflessi che ci facevano sperare, noi della cascina grande, in una ricchezza di là da venire. Le ragazze spiavano trasognate gli abiti da provincia sobria, lungi dal boom economico che l’avrebbe orientata verso scelte più barocche. I ragazzi invidiavano le pose arroganti degli uomini in completo scuro. Aspiravamo, insomma, al meglio che c’era a disposizione. Digiuni di viaggi, di orizzonti allargati, inesperti di riviste patinate, curiosi alla nostra maniera di qualche moda occhieggiata nelle rare puntate in città. Attratti dalle auto. Come quella del pasticcere.
Quell’uomo grosso, con il cappello a tesa larga sulla chioma
rossiccia, osservava con uno sguardo celeste
la varietà dell’incarnato dei figli della sua miglior fornitrice. Nei miei
occhi neri e nei riccioli inanellati, rimpianse la giovinezza di Milù.
All’epoca era raro che un uomo temesse la vecchiaia, la libertà sua era
infinita, mentre la mamma sapeva, anche senza bisogno del tanto decantato sesto
senso, che il tempo per lei, femmina procreatrice, era due volte più breve. Mi
amava molto, ma era di indole pratica. Per la sua
primogenita desiderava una buona occasione. La città in cui mi avrebbe mandata
non era certo la capitale di un impero e il pasticcere fulvo non somigliava al
principe Andrej, ma era delicato e gentile, nonostante la stazza da mangiatore
di pastella fritta nello strutto, e disposto a farmi studiare. A darmi un
mestiere e, visto che c’era, a farmi un corredo.
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