Racconto una storia che per me è finita «bene». Bene tra virgolette
perché poteva finire meglio. Però, insomma, non è finita malaccio. Poteva andare
peggio, in poche parole. Risulta che (come direbbero gli spagnoli) un paio d'anni
fa una casa editrice mi propose di acquistare da me i diritti di una vecchia traduzione. Ne fui
molto contenta: di rivendere una traduzione fatta lustri prima non capita tutti
i giorni. Accettai. Tempo dopo mi arrivò un contratto. Era talmente
fumoso che lo feci riscrivere. Anche il nuovo contratto aveva qualche
legnosità, ma comunque me lo avevano rifatto e decisi che poteva andare. Dopo qualche
tempo la redattrice che seguiva il lavoro mi chiese se avevo i file originali,
per poter pubblicare prima il libro. Sparsi in giro - la traduzione era stata
scritta su un computer ormai antico - ce li avevo. In fondo, mi sembrò una buona
occasione per controllare davvero il lavoro del redattore su una traduzione
dei miei quasi esordi, visto che l'editore che l'aveva pubblicata la
prima volta non dava le bozze ai traduttori. Rilessi riga per riga i miei
file confrontandoli con la traduzione pubblicata. La revisora dell’epoca aveva lavorato
bene. I suoi erano stati interventi puntuali, quelli giusti, senza esagerare.
Ne aggiunsi qualcuno mio, una parola cambiata per evitare un'assonanza, per precisare
un termine. Mi prese tempo, non me l'aveva chiesto nessuno, ma non era lavoro sprecato.
Non riuscirei mai, avendone la possibilità, a non rivedere una vecchia
traduzione prima che vada in stampa di nuovo. Consegnai tutto prima di Natale.
Passata la data di scadenza del pagamento scritta sul contratto, contattai il
direttore editoriale. Mi rispose piccato che non era lui che si occupava della
parte amministrativa. Chi se ne occupava mi rispose che purtroppo al momento
non potevano dirmi quando mi avrebbero pagato. Attesi. In vent'anni di
traduzioni non mi è mai capitato che non mi pagassero. Per quella casa editrice,
però, non avevo mai lavorato e stupidamente non mi ero informata. Si arrivò all'estate
del 2014. Minacciai di far inviare lettere dall'avvocato. Provai con le
telefonate. Niente da fare. La somma che mi dovevano non era abbastanza alta da
giustificare l'intervento di un avvocato, pensavo. Mio marito mi convinse del
contrario. L'avvocato mandò quattro lettere. Niente. Neanche un cenno. Lo
scorso maggio decisi per un ultimo tentativo. Scrissi una mail di questo
tenore:
«Gentili signori,
ho fatto spedire quattro lettere dal mio
avvocato senza che mi si degnasse di una risposta.
Lo trovo, come potrete ben capire, scorretto. Non solo perché mi avete proposto
di acquistare i diritti della mia traduzione, ma anche perché mi avete chiesto
i file originali.
Ora mi aspetterei una risposta in tono educato e non frettoloso. E
possibilmente non il silenzio.
Ancora meglio un bonifico.»
In giugno è
arrivato il bonifico. Le spese dell’avvocato sono rimaste a carico mio, ma non
importa.
Fine.
*Foto: murales a Reggio Emilia, dell'autore si vedono le iniziali del nome.