venerdì 31 gennaio 2014

Nel 1917, il giovane Michail Bulgakov....


morfina

.... fresco di una laurea in medicina, viene inviato a Vjaz'ma, cittadina del governatorato di Smolensk, come responsabile del reparto malattie infettive e veneree dell'ospedale locale.Vi approda dopo una prova durissima, quella di medico nella condotta di Nikol'skoe. La medicina, che pure aveva scelto con entusiasmo e praticato con grande scrupolo, verrà presto accontonata. Agli inizi degli anni venti, Bulgakov è scrittore di professione. Tuttavia, parte di quell'esperienza verrà rielaborata e utilizzata in alcuni racconti.
Morfina è datato "Autunno, 1927" ed era destinato alla rivista "Medicinskij rabotnik". E' il diario di un giovane medico che registra le impressioni, le allucinazioni, le paure, le umiliazioni a cui lo espone la condizione di morfinomane. La cornice - il racconto del dottor Bomgard, destinatario del diario -. è, come abbiamo visto, autobiografica ...
La cifra di Michail Bulgakov, lo si è ripetuto all'infinito, è gogoliana: la realtà è fonte inesauribile di ispirazione, ed è colta nei suoi aspetti più stralunati, patetici, disgustosi se non addirittura brutali, ma filtrati da una raffinata ironia, un imprevedibile sarcasmo...
E' il medesimo, immancabile sorriso che Bulgakov rivolge a se stesso: "Sono davvero tanto a pezzi?" - riflette Poljakov. - Porto a testimonianza i miei appunti. Non sono che frammenti, ma, del resto, io non sono uno scrittore."
(Dalla postfazione di S.S. a Morfina, Passigli).

P.S.: mi si perdoni la petulanza: Bulgakov si legge con l'accento sulla a. E' una parola piana. 

lunedì 27 gennaio 2014

E allora... Hurbinek (nel giorno della memoria).


L' inventore di compleanni
Il mio contributo, dal baule del traduttore, è un libro edito qualche anno fa da Piemme, tradotto dallo spagnolo. L'autore è Adolfo García Ortega, editore e intellettuale raffinato. Il libro si intitola L'inventore di compleanni (El comprador de aniversarios, in originale). Ha una copertina che parla da sé. È uno scatto di Ernst Haas, fotografo austriaco di origini ebraiche, grande sperimentatore del colore. La storia parte da una suggestione, fortissima, che García Ortega si porta dietro fin da quando ha letto La tregua di Primo Levi, autore che conosce a fondo e ama.
Il 27 gennaio 1945 arriva nel lager di Buna-Monowitz, distretto di Auschwitz, la prima pattuglia russa e Primo Levi viene trasferito nel Reparto Infettivi del campo grande. Devastato dalla febbre, viene ricoverato in una stanzetta dove giace immobile  un bimbo. Lo chiamano Hurbinek perché emette incomprensibili suoni che danno forma a questa parola. È atrofico, ma ha uno sguardo vivissimo.  Scrive Primo Levi: «Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato ad Auschwitz e non aveva mai visto un albero... Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era stato segnato col tatuaggio di Auschwitz.»
E poco altro. Di Hurbinek non sappiamo praticamente niente, eppure la scrittura ce lo rende eterno, vicino, tangibile, lo fa vivere. Lo fissa nella memoria. E Adolfo García Ortega, «legittimato da un senso di giustizia» sente l'urgenza di inventargli una ipotetica vita, dei compleanni, perché crede che «Hurbinek sia vissuto giusto il tempo in cui non si riesce ad avere ricordi, il tempo in cui non si è grado di dire ho fatto questo, sono stato nel tal posto, ho provato la data emozione. Tutti i ricordi, salvo rare eccezioni, si formano dai tre anni in poi. Ecco perché mi vengono i brividi se penso che Hurbinek, con tutta la sua forza e la sua voglia di vivere, ha avuto una pre-vita, ha vissuto solo il prolungamento dell'utero materno. Eppure, tutto quel tempo privo della possibilità di un ricordo non è stato altro che una continua sofferenza. Con il dolore e la paura a fargli da nutrimento, da giocattoli, da aria.»

giovedì 23 gennaio 2014

A spasso per la campagna russa (dal baule del traduttore).


Miniature
Aleksandr Solženicyn scrisse ( o forse è il caso di dire compose, dato che hanno un passo lirico) alcune brevi prose che chiamò Krochotki, Miniature. Sono  paesaggi schizzati su un taccuino durante un giro in bicicletta. Impressioni che occupano poco spazio ma si fissano nella memoria.  A me, che amo Esenin, è piaciuta soprattutto la sua commozione durante una visita a Kostantinovo, il paese dove era nato il poeta. Solženicyn si domanda come sia stato possibile che quell'angolo sperduto abbia ispirato tanta bellezza.  L'incanto di una stufa, di un'aia, dei prati che incastonano una pozza. Esenin fu - anche - un immaginista.
 Dice Aleksandr Solženicyn: "Nell'isba degli Esenin gli striminziti tramezzi non arrivano al soffitto, ripostigli, anfratti, nessuna stanza degna di questo nome. Nell'orto c'è una baracca senza finestre, e prima c'era il bagno. Sergej rincantucciato qui al buio componeva i primi versi. E dietro la siepe il solito campetto.
Cammino per questo villaggio, come ce ne sono tanti, dove anche adesso gli abitanti si preoccupano del pane, del guadagno e di ben figurare davanti ai vicini, e mi emoziono: una fiamma divina un tempo illuminò queste lande, e ancora oggi sento il suo calore sulle guance."

martedì 21 gennaio 2014

Reblogueando... da Aire Nuestro

Tante sono le competenze e le attitudini richieste a un traduttore letterario. Per citare un po' a caso, di fretta, in una pausa di mezzogiorno: la conoscenza approfondita di due lingue (o più), quella di partenza e quella d'arrivo, e della cultura dei paesi in cui quelle lingue si parlano. Una formazione linguistica, una base di teoria letteraria e della traduzione. Il mestiere è importante, ma più si lavora più si sente il bisogno della teoria, di riordinare le idee, di confrontarle. La voglia di fare ricerca, di essere curiosi del mondo, di seguire l'evoluzione delle lingue da e in cui si traduce. Molte letture. Viaggiare. Guardare. Aggiornarsi. Essere attenti ai registri che usano le persone che si hanno  intorno. Sapere dove sta andando l'editoria, cosa si pubblica.
Si può iniziare per caso, per vocazione, per formazione.
Fondamentalmente, però, SI TRADUCE SEMPRE PER PASSIONE.

http://airenuestro.com/2014/01/21/pasion-y-traduccion/

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lunedì 13 gennaio 2014

14 gennaio 1944: morte di un bersalpino.


Cerco di ricostruire la storia del prozio Aldo. Era partito giovane e forte per la campagna di Russia e non è più tornato. Diversi anni fa ho provato a fare alcune ricerche in internet. Ho trovato il numero dell'Unione nazionale reduci di Russia e ho scoperto che era morto in un campo di prigionia. Tutto sommato ero stata contenta di comunicare alla nonna, a distanza di cinquant'anni, che il suo cognato preferito ("educato, gentile, proprio bravo l'Aldo") non era più un disperso ma un caduto. Poco tempo fa ho riscoperto qualche sua lettera e mi è tornata la curiosità di saperne di più. Sul sito dell'Unirr ho trovato che Aldo Sichel, nato a Piacenza il 5 maggio 1913, era un alpino, faceva parte della 216°  compagnia cannoni controcarro. È morto il 14 gennaio 1944 in un campo di prigionia: il campo 29 Pakta Aral (Pachta Aral). Vado a vedere dov'è. È in Kazakistan. Pare che lì molti siano morti di tifo. In famiglia si dice che Aldo  è morto di fame, scriveva  che ne pativa. Apprendo che a Pakta Aral si lavorava nei campi di cotone. Chissà. Scopro anche che lo zio era un bersalpino. Un bersagliere del 7° reggimento bersaglieri 8° compagnia che era stato trasformato in un alpino della Tridentina.
Quanto poco so della sua sorte. Voglio leggere tutte le sue lettere, le devo recuperare nei vari cassetti, comò, credenze a casa dei miei. Pensare alle emozioni di chi le ha lette allora. Nei pochi fogli che ho recuperato fin qui il prozio scrive che «sabato 18 corrente -  luglio 1942 - si parte per la nostra destinazione. Il più che mi dispiace è anche che durante il viaggio è proibito scrivere... Dunque non datevi pensiero per me se non riceverete posta perché di certo passerà un mese prima di farvi sapere... Dopotutto, bisogna rassegnarsi al nostro destino e farsi coraggio, sperando sempre in bene.»
 Come mi dispiace che non sia bastato, giovane Aldo.

lunedì 6 gennaio 2014

"Fermati qui" disse Anatolij Pavlovič Suchanov....

...dal sedile posteriore, rivolto al paio di guanti scamosciati che reggeva il volante.


Cominciare il nuovo anno con l'incipit di un libro che piace (a me). Si tratta di "La vita di sogno di Suchanov", di Olga Grushin, pubblicato da Ponte alla Grazie nel 2006 e tradotto da Serena Prina. In Italia è ormai fuori catalogo e, se non lo si trova in libreria, si compra in Internet. Io lo ordino e lo regalo a Natale a chi mi regala un libro. L'ho trovato subito straordinario. È ambientato nella Mosca di qualche anno fa ed è la storia del direttore di un'importante rivista d'arte che, per una serie di fatti imprevedibili, incomincia a guardarsi dentro e guardando bene bene prima va in crisi e poi ritrova se stesso. Mi è piaciuto perché parla dell'ambiente dell'arte russa e di un'anima d'artista che nella vita ha fatto scelte anche meschine. Parla, in maniera appropriata e documentata, di cose di cui ho voglia di sentir parlare. Come dice la bandella (pure lei ottima e aderente al contenuto), che uso perché non so trovare parole migliori, racconta " la parabola struggente e poetica di un talento vigliaccamente svenduto e coraggiosamente ritrovato".
Anatolij Pavlovič recupera il meglio di sé, o quel che di sé gli piaceva di più, a 56 anni, "ridendo piano".