Il 27 gennaio 1945 arriva nel lager di Buna-Monowitz, distretto di Auschwitz, la prima pattuglia russa e Primo Levi viene trasferito nel Reparto Infettivi del campo grande. Devastato dalla febbre, viene ricoverato in una stanzetta dove giace immobile un bimbo. Lo chiamano Hurbinek perché emette incomprensibili suoni che danno forma a questa parola. È atrofico, ma ha uno sguardo vivissimo. Scrive Primo Levi: «Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato ad Auschwitz e non aveva mai visto un albero... Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era stato segnato col tatuaggio di Auschwitz.»
E poco altro. Di Hurbinek non sappiamo praticamente niente, eppure la scrittura ce lo rende eterno, vicino, tangibile, lo fa vivere. Lo fissa nella memoria. E Adolfo García Ortega, «legittimato da un senso di giustizia» sente l'urgenza di inventargli una ipotetica vita, dei compleanni, perché crede che «Hurbinek sia vissuto giusto il tempo in cui non si riesce ad avere ricordi, il tempo in cui non si è grado di dire ho fatto questo, sono stato nel tal posto, ho provato la data emozione. Tutti i ricordi, salvo rare eccezioni, si formano dai tre anni in poi. Ecco perché mi vengono i brividi se penso che Hurbinek, con tutta la sua forza e la sua voglia di vivere, ha avuto una pre-vita, ha vissuto solo il prolungamento dell'utero materno. Eppure, tutto quel tempo privo della possibilità di un ricordo non è stato altro che una continua sofferenza. Con il dolore e la paura a fargli da nutrimento, da giocattoli, da aria.»
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