Luglio
2015. Devo tornare da P., la città in cui sono nata, a P., la città in cui
vivo. Ho visitato una persona in ospedale. Mi ha guardata con uno sguardo perduto e bello. L’autostrada è intasata. Decido per la via Emilia.
Conosco quasi a memoria i sessanta
chilometri che mi separano dalla mia casa. Capannoni, campi di girasoli e
paesini dove ho passato molte serate giovanili. Alle due di un pomeriggio d’estate
la via Emilia è un’esperienza mistica. Prima di partire mi viene fame. Non ho
voglia dell'aria condizionata di un bar. Entro in un supermercato, compro una
confezione di riso condito, parcheggio sotto un albero. Scelgo il
posto sbagliato: a due passi un camionista fermo per la siesta mi lampeggia.
No, grazie, caro. Con questo caldo, poi. Che idea. Mi diverte e mi irrita. Mi
sposto sotto un altro albero mezzo chilometro più in là. Apro le portiere dell’auto.
Nella confezione di riso manca la forchetta. Non è giornata. Stacco un pezzo di cartone dalla scatola e lo
uso come cucchiaio. Il riso è un po’ acido, per via dei conservanti. Mi brucia
lo stomaco. Fisso davanti a me un campetto che mi divide dalla strada. Ha un bel
prato. Al di là sibilano le auto. Non sono tante. Si sentono le cicale. I margini
delle cose si stemperano nel calore che sale dall’asfalto. Sono dentro a un
quadro di De Chirico ma nella pianura padana. Il mondo è immobile, estraneo.
Sudo. Penso ai romanzi di Romain Gary che mi piacciono tanto e mi fanno stare un
po’ male. Ha ragione il ragazzo: non è sempre un grande auspicio avere tutta la vita davanti a sé. Bisogna
andarci piano con le parole.
Poi
succede una cosa. Accendo la radio. C’è Eugenio Finardi che urla Musica ribelle. Un’eco. Un ricordo. I ricordi sono la vera sostanza di
cui siamo fatti. Banale ma io l’ho imparato tardi e a mie spese vedendo la gente perdere la memoria. Un male dei
tempi. Butto il riso in un cestino e parto cantando. Sono una donna che ha tutta
la via Emilia davanti. Va bene così.