domenica 17 novembre 2013

Amarcorgol'


Italia, anni Ottanta. Mi dirigo in biblioteca. Sto cercando un saggio di Nabokov su Gogol'. Mi serve per l'esame del secondo anno di russo, ma è una lettura che mi sentirei di consigliare anche se fossimo  già nel duemilatredici. Forte della mia conoscenza della lingua, sfoggio davanti al bibliotecario un bel Gógol'. È una parola piana.  Il bibliotecario non capisce. Nel silenzio della biblioteca echeggia chiaro e netto il suo "COOOMEEEE?". Tutti alzano la testa, interessati (nel silenzio generale un suono solo, secco, altisonante non disturba, incuriosisce). Provo un leggero imbarazzo: Gógol', ripeto  intimidita. Il fatto è che nei primi anni Ottanta sono molto giovane e credo ancora ai templi della cultura.  "AH" dice lui più sonoramente, "GOGÓL", scoccando una parola acuta, ritmica, affilata (forse influenzato da Mogol, il paroliere, o dal Gran Mogol delle Giovani Marmotte, o più semplicemente non sa che è sbagliato, e non ci sarebbe nulla di male, se non prendesse per i fondelli il prossimo....), e l’accompagna con un gran ghigno divertito.
Dentro di me mi ci arrabbio. Fuori, apro il saggio di Nabokov. E c'è scritto, più o meno, che per affrontare un autore è buona norma saperne pronunciare il nome. Leggo il paragrafo tre o quattro volte, lo assaporo, me lo schiaccio con la lingua contro il palato, sento gli angoli della bocca puntare all’insù, e mi innamoro ancora più perdutamente della letteratura russa. Mi infilo il cappotto di Akákij Akákevič, prendo in prestito il libro, esco compita dalla sala di lettura, mi tuffo nel grottesco della vita e mi sembra che il mondo sia mio.
Ogni volta che chino la testa su un libro, spero di ritrovare la stessa sensazione.


* Il saggio di Nabokov si intitola Nikolaj Gogol’, in Italia l’ha pubblicato Mondadori negli anni Settanta, e l’ha tradotto Annamaria Pelucchi


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