Italia, anni Ottanta. Mi dirigo in biblioteca. Sto cercando un saggio
di Nabokov su Gogol'. Mi serve per l'esame del secondo anno di russo, ma
è una lettura che mi sentirei di consigliare anche se fossimo già
nel duemilatredici. Forte della mia conoscenza della lingua, sfoggio davanti
al bibliotecario un bel Gógol'. È una parola piana. Il bibliotecario non
capisce. Nel silenzio della biblioteca echeggia chiaro e netto il suo
"COOOMEEEE?". Tutti alzano la testa, interessati (nel silenzio
generale un suono solo, secco, altisonante non disturba, incuriosisce). Provo
un leggero imbarazzo: Gógol', ripeto intimidita. Il fatto è che nei primi
anni Ottanta sono molto giovane e credo ancora ai templi della cultura.
"AH" dice lui più sonoramente, "GOGÓL", scoccando una
parola acuta, ritmica, affilata (forse influenzato da Mogol, il paroliere, o
dal Gran Mogol delle Giovani Marmotte, o più semplicemente non sa che è sbagliato, e non ci sarebbe nulla di male, se non prendesse per i fondelli il prossimo....), e l’accompagna con un gran ghigno
divertito.
Dentro
di me mi ci arrabbio. Fuori, apro il saggio di Nabokov. E c'è scritto, più o meno, che per affrontare
un autore è buona norma saperne pronunciare il nome. Leggo il paragrafo tre o
quattro volte, lo assaporo, me lo schiaccio con la lingua contro il palato, sento
gli angoli della bocca puntare all’insù, e mi innamoro ancora più perdutamente
della letteratura russa. Mi infilo il cappotto di Akákij Akákevič, prendo in
prestito il libro, esco compita dalla sala di lettura, mi tuffo nel grottesco
della vita e mi sembra che il mondo sia mio.
Ogni volta che chino la testa su un libro, spero di ritrovare la stessa
sensazione.
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