Ero partita con una borsa rigonfia ricamata a punto e croce.
Aveva lo sfondo nero e un disegno a fiori scarlatti. Era
stata della madre della mamma, e lei l’apprezzava molto. L’ho conservata a
lungo e ora è eredità di una nipote. Gli angoli tondeggianti si sono spellati,
ma in alcuni punti il lavoro di cucito è ancora intatto. Si riconosce la mano
di una volta. Con i manici di cuoio
portavo qualche ricambio di biancheria, due o tre maglioni fatti a mano,
calzature più eleganti delle scarpe con le stringhe che indossavo, e un paio di
meravigliose calze di seta fumé. Nel cuore invece racchiudevo una sacca di
desolazione. Avevo finto di comprendere le ragioni materne, ma l’avvilimento mi
abbatteva. Al momento mi pareva che le cose da rimpiangere fossero ben più di
quelle per cui gioire.
Mi sarebbe mancato il sentimento, struggente e intrigante,
che provavo per mio fratello Primo, il quale, da bravo contadino con
l’occhio lungo, di qualcosa doveva
essersi accorto. Non volevo perdere l’affetto delle mie sorelle, lo spazio dei
campi intorno a casa, gli odori dell’aperta campagna, le rare carezze ruvide e
impacciate di mio padre. Potevo invece rinunciare con una certa sventata
allegria al lavoro dalla signora, grassa matrona paesana paludata in vesti
scure, dal ventre che s’indovinava flaccido, non cattiva ma munifica di ordini
perentori, continue pretese.
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