Mi piaceva molto andare alla Biblioteca Lenin, ora Biblioteca di Stato, a
raccogliere il materiale per la mia tesi di laurea. Erano anni in cui le
ricerche non si facevano con il computer, niente internet, niente browser,
niente pagine web, il che offriva una scusa in più per andare a studiare nella
capitale russa.
Salivo gli imponenti gradini dell'edificio, con il naso rosso per il freddo
dell'inverno, o con le scarpe inzaccherate del fango del disgelo di primavera.
Entravo nel grande spogliatoio, dove l'addetto si stupiva perché i nostri
piumini di stranieri erano spesso sprovvisti della fettuccia di tessuto che
permetteva di appenderli all'attaccapanni numerato. Raggiungevo il primo piano
dove si trovava la severa sala dei filologi, dalle cui alte finestre filtrava
una luce opalina. Accendevo la lampada del posto prescelto e poi mi trasferivo
nello schedario, rigorosamente cartaceo, dove compilavo la richiesta dei testi
in lettura.
I miei erano tutti volumi giganteschi, perché lo scarno materiale, per lo
più poco significativo, che trovavo sulla mia scrittrice, era composto da
annate rilegate di riviste degli anni Quaranta.
Passavo qualche ora china sulle ampie pagine, per scorrere gli articoli che
parlavano di lei e preparare le schede per le fotocopie.
Questo era il piacere più grande perché, quando entravo nella stanza
dedicata, la responsabile mi accoglieva con un meraviglioso: «Dica pure,
compagno lettore!»
Questa apostrofe mi faceva sentire meno straniera. Compagno lettore mi
sembrava infinitamente più bello di compagno presidente, compagno di strada,
compagno di scuola. Gli attribuivo un significato che in fondo non aveva e che mi
strappava un sorriso compunto, perché mi rendeva partecipe di una gilda
assai numerosa e flessibile, quella dei lettori. A tutt'oggi, mi sembra un
ruolo non da poco.
Voglio dunque omaggiare gli addetti alle fotocopie della Biblioteca Lenin
degli anni Ottanta, epoca che io ho vissuto in bilico tra l'Unione Sovietica in
declino, la Spagna della movida e la Milano da bere con le sue illusioni
fallaci, innamorata di tutt'e tre, con giovanile ingenuità, totale assenza di
pregiudizio e spensierata mancanza di giudizio critico.
Dal punto di vista della cura che mettevano nel lavoro, alcuni di questi
addetti lasciavano a desiderare, ma non gliene voglio, giacché i mezzi erano quelli che erano, e allego l'immagine di
questa fotocopia, spessa come un cartoncino, e che, visibile sulla destra, porta ancora l'impronta,
vagamente inquietante, della mano di uno di loro.
P.S.: Questo ricordo mi è stato evocato da un film che ho visto da poco: Il
treno va a Mosca, di Federico Ferrone e Michele Manzolini.
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