lunedì 21 luglio 2014

Compagno lettore

Mi piaceva molto andare alla Biblioteca Lenin, ora Biblioteca di Stato, a raccogliere il materiale per la mia tesi di laurea. Erano anni in cui le ricerche non si facevano con il computer, niente internet, niente browser, niente pagine web, il che offriva una scusa in più per andare a studiare nella capitale russa.
Salivo gli imponenti gradini dell'edificio, con il naso rosso per il freddo dell'inverno, o con le scarpe inzaccherate del fango del disgelo di primavera.
Entravo nel grande spogliatoio, dove l'addetto si stupiva perché i nostri piumini  di stranieri erano spesso sprovvisti della fettuccia di tessuto che permetteva di appenderli all'attaccapanni numerato. Raggiungevo il primo piano dove si trovava la severa sala dei filologi, dalle cui alte finestre filtrava una luce opalina. Accendevo la lampada del posto prescelto e poi mi trasferivo nello schedario, rigorosamente cartaceo, dove compilavo la richiesta dei testi in lettura.
I miei erano tutti volumi giganteschi, perché lo scarno materiale, per lo più  poco significativo, che trovavo sulla mia scrittrice, era composto da annate rilegate di riviste degli anni Quaranta.
Passavo qualche ora china sulle ampie pagine, per scorrere gli articoli che parlavano di lei e preparare le schede per le fotocopie.
Questo era il piacere più grande perché, quando entravo nella stanza dedicata, la responsabile mi accoglieva con un meraviglioso: «Dica pure, compagno lettore!»
Questa apostrofe mi faceva sentire meno straniera. Compagno lettore mi sembrava infinitamente più bello di compagno presidente, compagno di strada, compagno di scuola. Gli attribuivo un significato che in fondo non aveva e che mi strappava un sorriso compunto, perché  mi rendeva partecipe di una gilda assai numerosa e flessibile, quella dei lettori.  A tutt'oggi, mi sembra un ruolo non da poco.
Voglio dunque omaggiare gli addetti alle fotocopie della Biblioteca Lenin degli anni Ottanta, epoca che io ho vissuto in bilico tra l'Unione Sovietica in declino, la Spagna della movida e la Milano da bere con le sue illusioni fallaci, innamorata di tutt'e tre, con giovanile ingenuità, totale assenza di pregiudizio e spensierata mancanza di giudizio critico.
Dal punto di vista della cura che mettevano nel lavoro, alcuni di questi addetti lasciavano a desiderare, ma non gliene voglio, giacché i mezzi erano quelli che erano, e allego l'immagine di questa fotocopia, spessa come un cartoncino, e che, visibile sulla destra, porta ancora l'impronta, vagamente inquietante, della mano di uno di loro.


P.S.: Questo ricordo mi è stato evocato da un film che ho visto da poco: Il treno va a Mosca, di Federico Ferrone e Michele Manzolini.

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