IX.
Mi mancarono molte cose nella mia nuova vita. Ma
non quelle che mi sarei aspettata. Perché, più che per le persone, mi struggevo per gli oggetti, le
situazioni. La città non mi piacque granché. Quello che mi era sembrato grande,
ora era piccolo in confronto a quanto avevo perduto. La stanza da letto condivisa,
ad esempio. Nel grande lettone dormivamo in tre. Il materasso era gelido e ci
scaldavamo strofinandoci i piedi. Il calore del prete sotto le coperte durava
poco e non bastava per tutte le sorelle. L’odore della brace ci rimaneva
addosso come una fragranza casereccia. Come fossimo fatte di pane. Era allora, prima di cedere al sonno, che ci facevamo le confidenze più intime.
Si riducevano a poco, vista la nostra ingenuità, che non vuol dire,
come ho scoperto in seguito, non assaporare
le cose della natura. Era il modo di affrontarla, specchiato come la
superficie di un lago. La fiducia che la vita non ci avrebbe tradite mai,
offrendoci un marito amato, dei pargoli sani e ben pasciuti. Qualche abito da
sfoggiare la domenica e ai pranzi delle feste. A nessuna di noi andò esattamente così. E in fondo fu una
fortuna. La terra ci offriva le sue sfaccettature, la sua superficie sbalzata,
il suo paesaggio variegato.
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