Emilia era davvero un tipo allegro. Tant’è che la chiamavano,
ma solo i più intimi, Milù. Accoglieva il giorno con buonumore, anche se in
casa nostra era difficile mettere
insieme il pranzo con la cena. Dalla casa paterna, non poteva più aspettarsi
alcun aiuto. Non aveva grandi aspirazioni, del resto nessuno le aveva insegnato
ad averle, ma possedeva due mani d’oro e uno squisito sesto senso. Per queste sue splendide doti, unite a un petto prorompente
e a due anche morbide e fluttuanti, piacque
tanto al proprietario di una pasticceria in città, un piccolo centro nebbioso e
prospero, che le comprò a lungo torte e le regalò carezze.
Tino non lo scoprì mai. O almeno finse di non sapere. Dei
suo otto figli, un paio erano un po’ meno suoi ma, visto che li amava come gli
altri, fece loro spazio nel suo cuore generoso e li sollevò in aria festante
con le manone incallite. Milù del resto gli voleva un gran bene, ma adorava la
propria prole e mangiare almeno una volta durante la giornata. Perciò, facendo
di necessità virtù, si perdonò le scappatelle, accompagnate in tutta onestà da
qualche sospiro di piacere, e gli diede sempre
tutto l’affetto di cui la sua anima grande e le cosce tornite erano
capaci.
Senza il seme del pasticcere Tino avrebbe avuto sei figlie
femmine. I miei due fratelli furono una gentile concessione ai tempi
andati. Gli omaggi, però, piangevano
come ossessi da mane a sera, Milù era sempre più stanca e perse un po’ di tono.
Il fuoco nello sguardo rimase invece sempre vivo. E le sue meringhe alla panna
un prodigio della natura.
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