La vita di Tino e la mia mamma fu misera ma non brutta. Le nozze caddero in un giorno d’autunno. Si
sposarono in chiesa. Lei indossava un completino fiorato, giacchino avvitato e
gonna a godet, niente abito bianco, anche se erano due cuori puri. In paese si
era sparlato di loro per nove lunghissimi mesi di pianto (di Emilia, che così
si chiamava la mia mamma) e di urla (del suo papà); di rabbia (del mio nonno
paterno) e di gioia (del mio incauto genitore). Poi venni al mondo io. Un muso
stropicciato e paonazzo. Un ciuffo di stoppa sul cucuzzolo. Una fatica a
strapparmi un osanna. Il nonno paterno si commosse, il padre di Emilia storse
la bocca in un mezzo sorriso, Emilia smise di singhiozzare, e il mio papà si
sciolse in un mare di lacrime. Il paese continuò a sparlare. Del matrimonio
bacato di lei perché lui aveva appeso il cappello, della dabbenaggine di lui
perché lei era una poco seria.
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