Tino aveva diciott’anni, governava le bestie, le amava. Il
padrone lo pagava poco ma non lo trattava male. Per le feste gli regalava un
sacco di farina gialla, da polenta. Stava insieme alla famiglia in una cascina
vecchia, di quelle dove ancora esisteva il pozzo del taglio, che tanto
terrorizzò le mie notti di bambina. Si diceva che nelle cantine vi fosse una
cavità profonda con le pareti irte di lame dove veniva scagliata la servitù
ribelle. Anche per questo, per un certo lasso di tempo, sono stata una persona
remissiva. Tino raggiungeva il lavoro passando per il paese, dalla casa accanto
alla parrocchia, con tre scalini all’ingresso e una grande cucina di mattonelle
rosse. Ci viveva, insieme al padre, a una donna stanca e a una frotta di
fratellini, la più bella bruna che avesse mai visto. Lei, che cominciava a
perdere la vista, lo fissava per metterlo a fuoco, e quello sguardo intenso gli
infiammò il cuore.
La mamma passava le sue giornate a rassettare, cucinava
meravigliosamente. Con l’ingrediente saporito della fantasia stufava stracotti,
impastava gnocchetti, tirava la pasta più soda del paese. Rammendava camicie,
faceva la calza, chiacchierava con le amiche. Sognava, naturalmente. Era
un’adolescente, ma all’epoca non lo sapeva. Il ragazzone che passava per il
cortile calzava scarpe con rinforzi in ferro per non consumare le suole, e sui
ciottoli suonava una musica che le trillava dentro.
Per farla breve, ogni cascina ha una stalla, e ogni stalla
un fienile. Nella spaziosa barchessa del padrone persero entrambi la verginità.
Accadde in una sera calda di luglio, che non faceva ancora buio. Tino scese la
scala a pioli con la faccia tutta rossa, la mamma con qualche spiga nei
capelli.
Divenne il loro segreto, ripetuto con affanno appena la
tirannia del tempo e degli impegni concedeva una tregua sparuta. Ma lo rimase
per poco. Fino a quando la mamma non mostrò una piccola pancia tonda.
E fu così che io divenni la figlia dell’amore, e la mamma
una pietra dello scandalo.
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